Skip to content Skip to footer

Ricettario

alcuni rimedi popolari

E’ fondamentale sottolineare che i rimedi della medicina popolare, pur essendo testimonianze di un ricco patrimonio culturale, non devono essere considerati sostituti delle cure mediche scientificamente validate. Le informazioni che seguono sono presentate a scopo illustrativo e non costituiscono in alcun modo consigli medici. È importante ricordare che l’efficacia di questi rimedi non è sempre stata scientificamente provata. Tuttavia, essi rappresentano un importante esempio di come le comunità del passato abbiano saputo sfruttare le risorse naturali per prendersi cura della propria salute. (Il circolo culturale Pieve di Gaifa declina ogni responsabilità sull’uso di tali rimedi)

Detto ciò, esploriamo insieme alcuni esempi di rimedi utilizzati nella medicina popolare di un tempo:

Ricettario di alcuni rimedi popolari

Nei casi di acne il popolo di Anagni usava passare sul viso uno spicchio di aglio tagliato.
Nel Veneto applicavano sul viso un pappetta di pane grattato e cotto nel latte o con pappa di farina di segala con tuorlo d’uovo e olio.

Si usa far masticare alla persona affetta da tale bruciore foglie di fava e foglie di crispigna (sonchus oleraceus).
In molti paesi ciociari si usa il finocchio.
In Sicilia mangiano la lattuga o il finocchio dolce o il cavolo crudo o mandorle abbrustolite, bevono acqua bollita con foglie di alloro o acqua nella quale sia stato bollito un polipo.
Anche la fava e la castagna rompono l’acidità.

A S. Giovanni Incarico, si faceva bere in gran quantità il sangue degli animali uccisi.
Si consigliava anche il guscio d’uovo disciolto in alcol o bevanda alcolica poi così preparato si riteneva fosse un ricostituente e calcificante allo stesso tempo.
Si utilizzava anche l’acqua in cui erano stati immersi chiodi e pezzi di ferro arrugginiti e che si era tenuta esposta alla luce lunare per varie notti di seguito.
Utilissima a questo scopo, secondo una vecchietta che me l’ha raccomandata è anche una mela infilzata con chiodi.

Il popolo, ovviamente, sotto questo nome include tutti i mali sia dei bronchi che dei polmoni.
Si beve decotto di malva e pane abbrustolito, si beve abbondantemente del vino caldo, qualcuno consiglia di bere un bicchiere di vino ove sia stato spento un carbone acceso.
A Marolo si faceva una cura magica in cui entra il numero sette: si usava spalmare sul torace del malato un unguento ricavato da sette pezzi di lardo provenienti da sete case diverse.
Per la tosse si usa, un decoto di fichi secchi tagliati in piccoli pezzi o di mele essiccate.

Per la caduta dei capelli i contadini preparavano un decotto di foglie di ortica che veniva frizionato sul cuoi capelluto oppure veniva bevuto.
Anche il decotto di salvia o il peperoncino rosso sfregato sul capo venivano usati per lo stesso scopo.

Si introducevano nel foro della carie dei pezzettini di foglia di tabacco o di gomma d’ulivo o un pizzico di sale o pepe polverizzato.

Contro il mal di testa si usa una chiara d’uovo sbattuta su uno strato di stoppa (la stoppa è il lino battuto non lavorato) che a sua volta viene posto su una pezza di lino: La chiara cosi sistemata viene applicata direttamente sulla fronte e sulle tempie.

Per la sua azione emolliente, si usava e si usa ancora l’olio di oliva nel condotto uditivo.

Si usa il decoto di gramigna con i germogli più teneri del gelso e l’aggiunta di un
pugno di foglie tenere di sambuco, se ne beve un litro al giorno distribuito in tre quattro volte fino a guarigione.
Nele cistiti si consiglia sia il decotto di gramigna che di malva, della prima si usano i rizomi, della seconda le foglie e i fiori.
La parietaria è usata per curare i processi infiammatori della vescica.

Contro la congiuntivite, nel mondo rurale veneto, si lavano gli occhi con l’acqua dell’abbeveratoio in cui i buoi abbiano appena bevuto oppure si mette sugli occhi una fetta di pane fresco inzuppato nel latte o nell’acqua oppure due fette di carne di vitello o fette
di patate sulle palpebre.
A Palermo lavano gli occhi con la bava lasciata dai cavalli in un recipiente d’acqua dove hanno appena bevuto. A Nasso (Messina) lavano gli occhi con decotto fatto in un tegamino
nuovo di creta.

Si applicano sulla zona foglie di cavolo oppure foglie di prezzemolo precedentemente cotto nell’aceto.
A Castel S. Pietro si applicavano foglie bollite di ortica.
Nel veneto applicano sulla parte contusa una pezza imbevuta con acqua, aceto e sale o si facevano cataplasmi di erba paritaria e verbena pestate con l’albume d’uovo.
Presso i contadini un unguento miracoloso era il midolo dela mascela del maiale.
Se il bambino cade e batte la fronte si usa applicare sula parte pane bagnato e strizzato perché non si formi il bernoccolo.

A Sora usavano mezzo limone spremuto, un cucchiaio di caffé macinato e mezzo bicchiere di acqua, il tutto bevuto un paio di volte nella giornata.
Si usano anche le nespole o il sorbo nella misura di sette, otto frutti mangiati la mattina a digiuno.
In campagna si da ancora un piatto di fave secche semicotte come usavano fare i medici dell’800. Un altro rimedio è bere un decotto poco zuccherato di semi di tiglio.

In molti paesi si usava montare la chiara dell’uovo che versata su un telo, si applicava sulla regione rigonfia e dolente succesivamente si procedeva ad una stretta fasciatura con strisce di tela o bende.
In Ciociaria si usava fare impacchi di farina o crusca impastati con aceto.

Contro i dolori ossei, il torcicollo e i dolori articolari si usava massaggiare la parte dolente con olio di oliva, scaldato in un cucchiaino posto sulla brace del camino.
Dopo il massaggio si applicava sulla parte una pezza di lana.

Si usava applicare una feta di patata cruda che andava cambiata ogni giorno fino al rammollimento del durone.

 Sugli eczemi cutanei si applicavano le foglie fresche delle “lingue di cane” (plantago laulceolata ), pianta comunissima nele strade di tuta Italia, dopo averle lavate con un infuso di sambuco.

Si applicavano sotto forma di cataplasmi le foglie pestate e macerate del pesco.
Sulle infezione cutanee da spine si facevano impacchi di resina di pino.

Se ci si sentiva troppo affaticati, dopo ore di lavoro nei campi, si beveva un infuso fatto con la salvia, il rosmarino, e la menta nella misura di tre tazze al giorno per una settimana.

Per la cura dei favi e dei foruncoli, si usa ancora la cipolla. Le cipolle venivano fatte bollire fino a formare una polentina, poi sul tagliere si trita e si mescola con un pizzico di lievito di birra e con semi di lino macinati ( per rendere più efficace l’impasto a volte si mescolano gli escrementi di piccione).
Si applica l’impasto sulla tumefazione e lo si tiene per un intera nottata. La mattina si toglie e se ne applica un altro fino a mezzogiorno e cosi via, ogni sei ore, fino a quando il favo o foruncolo non giungano a maturazione. ‘In tal modo il favo si apre e si svuota da solo.

 Per lavare le ferite si usava il vino bianco o rosso. A Belforte All’isauro (Pesaro) versavano sulla ferita vino bianco o aceto e sale; il vino faceva coagulare il sangue, quindi per non fare attaccare la garza sulla ferita si mettevano le bucce di aglio.
Le ferite si lavavano anche con l’urina. La corteccia dell’olmo, applicata con la superficie tenera interna come bendaggio su una ferita da taglio, fa collabire perfettamente i margini
della ferita e ne accelera la cicatrizzazione.
Sulle ferite torpide si usava versare il contenuto acquoso e filamentoso di una bacca di olmo. Su una piccola ferita lacero-contusa si è dimostrato un ottimo rimedio l’uso della pellicola dell’uovo, quella che si trova come rivestimento interno del guscio.
La pellicola ancora umida viene applicata sulla ferita; man mano che essa si secca e si raggrinzisce, i margini della ferita si avvicinano fino a collabire perfettamente.
Come fasciatura d’emergenza, i contadini applicavano le foglie fresche di verbasco barbarastio. Anche leccarsi la ferita è in uso in molto paesi.
Le foglie di cavolo, applicate sulle ferite torpide, ne accelerano la guarigione.

Con la radice dell’ortica, sotto forma di decotto, si frizionava il cuoio capelluto.
Si facevano anche lavaggi del capo con un decotto di salvia ottenuto con due pugni di foglie bollite per venti minuti in due litri di acqua.
Infine si usava lavare la testa con l’acqua di cottura delle foglie di sedano.

 Bere per tre matine a digiuno tre bicchieri d’acqua con la farina di grano non setacciata.
Contro il bruciore di stomaco si usava la gramigna. Un’altra cura consisteva nel cuocere le foglie di malva in una pentola d’acqua senza sale e nel mangiarle a colazione pranzo e cena per un mese intero. Nel frattempo il paziente doveva bere durante il giorno l’acqua di
bollitura.

A Roma si facevano impiastri di aglio. A Pordenone si strofinava la cipolla.
Anche camminare scalzi sulla neve e poi fare immediatamente un pediluvio caldo guariva i geloni.

I contadini usavano fare sciacqui con un decotto freddo della corteccia dell’olmo o con decotto di fiori di tiglio o di fiori di malva.

Contro il mal di gola, si preparavano infusi e decotti a base di erbe come la salvia, il timo e la camomilla. Un altro rimedio popolare consisteva nel fare gargarismi con acqua e sale o con aceto di mele.

Si versava dell’acqua in un piato e subito dopo si faceva il segno della croce.
Con il police destro si facevano anche svariati segni di croce sula fronte del soggetto da guarire. Si bagnava il polpastrelo del mignolo destro in un cucchiaio contenente
olio, si faceva cadere una goccia d’olio al centro del piatto contenente acqua dopo di che si recitava un’Ave Maria: Se la goccia di olio si espandeva era segno che al soggetto era stato fato il malocchio. In tal caso si continuava a fare segni di croce sula fronte del paziente e
si facevano cadere altre gocce di olio nell’acqua, intercalate dall’Ave Maria.
Si continuava cosi fino a raggiungere un totale di nove gocce d’olio e di nove Ave Maria.
Il malocchio se ne andava solo quando la goccia che cadeva non si espandeva e restava quindi tonda e densa nell’acqua.

In caso di eccitabilità nervosa e di insonnia si usava un infuso di camomilla e gramigna.
Nelle valli di Comacchio preparano come sedativo l’orzo bollito nel brodo.
Altro rimedio è un decotto di radici di valeriana e camomilla.

I contadini preparavano con le foglie di verbena bollita in aceto dei cataplasmi leggermente irritanti che applicavano sui punti dolorosi del corpo. Per i dolori acuti inguaribili, la notte dell’Ascensione a mezzanotte in punto il sofferente si recava in un campo, dove si rotolava nell’erba. I dolori cessavano per sempre. A Parma facevano frizioni con il limone.
In Calabria per una nevralgia dentaria applicavano un impiastro di albume con la stoppa sulla guancia e sciacqui di vino bolito con mirto.

Per l’infiammazione dei testicoli, nel Veneto facevano la seguente cura: bagnavano una matassa di filo di canapa e di lino nella lisciva, in modo da farla diventare compatta, la metevano poi sotto l’ombelico e i testicoli tornavano normali.

A Veroli “gli orecchioni” si curavano con tamponi di stoppa imbevuti di olio di lume.
Infatti un antico proverbio diceva: “‘olio di luma ogni male consuma”.
In molti paesi della Ciociaria si usava spalmare la parte rigonfia con grasso di maiale per ammorbidire la pele distesa ed attenuare il dolore. Nel Veneto usavano ungere le regioni parotidee con miele o farina di lino oppure applicavano impacchi di fiori di sambuco bolliti in acqua di malva. I siciliani facevano unzioni di belladonna o di grasso della mascella
inferiore del maiale .

Si usava prendere un granellino di sale da cucina, lo si passava sulla palpebra flogosata e subito dopo il granellino si buttava nel fuoco del camino.
Se si otteneva uno scoppio, nello stesso tempo scoppiava l’orzaiolo. Altri usano fare impacchi di camomilla o di foglie di malva. In molti paesi si usa guardare nella bottiglia dell’olio. In altri casi si tocca l’orzaiolo con la fede di una donna gravida o sulla
stessa si compie l’atto di cucire l’occhio con un filo.

A Sora si riscaldano col ferro da stiro due pezzuole di lana e si applicano una dopo l’altra, alternandole caldissime, sul padiglione auricolare.
Si usava anche mettere nel condotto uditivo latte di donna che allatta o olio di oliva tiepido.

Otima contro gli elminti si dimostra la ruta le cui toglie triturate e pestate in un mortaio vengono mescolate con acqua tiepida: l’acqua di colatura, dolcificata con lo zucchero, si usa
contro la tenia e gli ascaridi.
C’è chi usa una collana di aglio attorno al colo del bambino o foglie di ruta legate sotto il naso.

Contro i pidocchi si usano l’acqua dove erano stati tenuti a bagno i lupini, applicata e frizionata sulla testa del paziente. Si usava lavare la testa anche con l’acqua di un abbondante decotto di foglie di ruta.
Nel veneto usavano acqua bollente e sapone, il petrolio, l’olio di lucerna, anche i mozziconi di sigaro sciolti nell’acqua calda. Nell’alto milanese la cura consisteva nel radere a zero i capelli e poi frizionare con aceto e petrolio.

In Sicilia si faceva il segno della croce sul porro con un coltello e si pronunciavano degli scongiuri particolari. Si usava anche far cadere sulla verruca una goccia di lattice giallo della
celidonia o del fico immaturo. Poiché il succo lattiginoso è caustico, riesce a togliere le verruche. Altri rimedi sono: bagnare i porri con la linfa di ginestra strofinare bene con il lardo e poi buttarlo via, gettare sul fuoco dei granelli di sale nello stesso numero dei porri e poi scappare.

I contadini consigliavano di metere la lama di un coltello o di un pezzo di ferro sulla parte dolorante. Il lattice del picciolo di una foglia di fico o del frutto veniva spalmata sula puntura del calabrone, mentre una moneta metalica aveva l’effetto di togliere il dolore.
Sulla puntura di vespa si passava la cipolla tagliata in due. Per tenere lontane le zanzare dalle camere si usava tenere un vaso di basilico o di mentuccia e per evitare le punture nella parti scoperte si strofinavano foglie di menta selvatica o foglie di basilico.

Ale persone affette da rachitismo, in particolare alle fanciulle, si facevano bagni di vino rosso allo scopo di rinvigorirle. Contro lo stato di denutrizione si usava ungere per tre giorni mattina e sera, con la cotica di porco maschio il bambino che per tre giorni non doveva essere lavato. La sera del terzo giorno la guaritrice preparava della “sagna” ( è una pasta fatta in casa con acqua e farina senza aggiunta delle uova) e confezionava tre piatti, uno per se uno per l’elemosina.
Al bambino si faceva fare il bagno nell’acqua tiepida dove era stata cotta la sagna.

Contro il raffreddore si facevano pediluvi in acqua molto calda. Subito dopo si mettevano calze di lana e si andava nel letto che era stato precedentemente riscaldato con mattoni caldi o con il “prete” (scaldaletto). Si beveva inoltre una bevanda calda qualsiasi, decotto o
acqua d’orzo o vino caldo.
L’operazione veniva ripetuta in genere per due o tre sere finché non si superava il raffreddore.
Altro rimedio è quello del brulè… Si prende un bicchiere di vino, lo si versa in un pentolino e lo si mete sul fuoco. Appena comincia l’ebollizione, con un cerino acceso si da fuoco ai vapori dell’alcol, si tiene acceso il fornello fino a quando la fiamma del vino si spegne, si dolcifica con zucchero e miele quanto basta, si beve e ci si corica immediatamente. Questa cura è efficace non solo nel raffreddore, ma anche contro la tosse ed il catarro bronchiale.
A S. Arcangelo di Romagna una cipolla bollita nel latte bevuto la sera e il mattino, scacciava il raffreddore. Si bruciava anche la crusca e se ne respirava il fumo, si divideva una mela in quattro parti per mangiarne uno spicchio al giorno: quando la mela era finita il raffreddore era passato.
Si facevano anche fumenti con le bacche di cipresso bollite in acqua, o con rosmarino e bicarbonato o solo con foglie di menta bollita.

Era assai frequente nelle campagne.
Per smaltirla, il giorno dopo si mangiava una buona scodella di pancotto in cui erano stati messi a bollire aglio, malva, pancetta tritata con due cucchiai di olio.

La sciatica, secondo un vecchio agricoltore di Anagni, si cura in questo modo: si fa appoggiare su un tronco il piede nudo, destro o sinistro a seconda l’arto dolente, in modo da riprodurne, con una punta metallica o una matita, i contorni. Si asporta poi la corteccia riproducente l’impronta del piede con un coltello e la si fa bollire a lungo in una pentola.
L’acqua di bollitura ancora calda servirà per fare i massaggi lungo il nervo sciatico; l’acqua si scalderà ogni volta perché la cura richiede molti giorni.
Per la sciatica si praticava anche un generoso salasso dal lato dell’arto dolente, forando con un grosso ago o tagliando una vena sotto il malleolo esterno .
Cosi facendo usciva il “sangue cattivo” mentre il malato teneva immerso il piede in una bacinella piena di acqua bollente. Al momento opportuno si tappava il foro con un piccolo coltello e mollica di pane.

Si usava coprire la scottatura con polvere di tarlo o con ragnatele. Oppure con polvere di buccia di melograno seccata e bruciata. L’uso della patata grattugiata sulle scottature è diffuso un po’ in tutta Italia.
Si usa anche spalmare l’ustione con cera d’api. Le suore cistercensi preparavano una pomata: si prendono un bicchiere pieno d’olio di oliva e mezza candela, si lascia fondere la cera nell’olio bollente, quindi si agita energicamente fino a formare una pasta burrosa
ed omogenea. La pomata cosi ottenuta si fa raffreddare e si conserva in un vaso di
vetro.
La cipolla schiacciata con un po’ di sale, messa sull’ustione, può calmare il dolore e evitare la formazione di bolle.

Un buon rimedio è quello di applicare sulla cute una miscela ottenuta con olio e acqua e sbattuta con una forchetta. Si prende un batuffolo di cotone si passa sulla parte arrossata e si lasçia asciugare. La medicazione va fatta per più giorni preparando la miscela fresca ogni
volta.

Si usa il susino secco o pruno domestico, sette o otto frutti la mattina a digiuno da masticare con cura.
Anche due o tre cucchiai di olio a digiuno possono funzionare.
Il decotto che si ottiene dai fichi secchi è un otimo lassativo alla dose di quattro cinque tazze al giorno come anche il decotto di fiori e foglie di malva.

In molti paesi della Ciociaria si usa la corteccia di radice secca di melograno, macerata per 24 ore ed il cui decotto, peraltro amarissimo, si somministrava a digiuno.

Si usava mettere della cenere calda dentro una calza di lana, che avvolta in un fazzoletto, si assicurava attorno al collo.

Per questa malattia si consigliava al malato di mangiare due o tre lumache vive perché si riteneva che il velo di muco prodotto strisciando sulla mucosa gastrica copriva la parte ulcerata facendola guarire.
Un’altra cura consisteva nel bollire un chilogrammo di radici o rizomi di pungitopo in un tegame di coccio, per quattro o cinque ore e in quattro litri di acqua fino a quando non si riducevano ad un litro. Un cucchiaio di quest’acqua, presa a digiuno ogni mattina per varie
settimane, riusciva a far guarire l’ulcera.

Per attenuare il dolore causato dalle vene varicose degli arti inferiori si facevano localmente impacchi o lavaggi con un decotto di corteccia di cipresso.

Si faceva bere una spremuta di mezzo limone con un cucchiaio di zucchero, un po’ di acqua e un pizzico di bicarbonato.

La Pieve di Gaifa

Via Pieve di Gaifa, 24
61029 Canavaccio di Urbino (PU)
Marche – Italy

Ciaffoncini adv © 2025. Tutti i diritti riservati