Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano “il Resto del Carlino – spettacoli Pesaro – cultura spettacoli società – Due Minuti di Storia.it” i giorni 24 – 31 dicembre 2023
«Quando ero piccolo Babbo Natale non esisteva»
Lo scrittore e poeta Umberto Piersanti rievoca lo spirito delle festività nel dopoguerra, da lui vissuto nella sua Urbino
L’avvicinarsi del Natale riporta alla mente i periodi delle feste di quando ero bambino.
La mia infanzia è stata in un piccolo appartamento a Urbino tra gli anni ‘40 e i primi degli anni ’50. Si cominciava con il presepio: il muschio s’andava a cercare nei boschi e nei campi, io ci andavo con le mie sorelle. Mi sembrava di andare così lontano, ma in realtà noi ci recavamo oltre la balaustra dietro il monumento a Raffaello, nel greppo sottostante, quando non c’erano case e solo campi all’orizzonte. Il muschio lo chiamavamo “la borra“ (dalla pianta
borragine, che in realtà è un’altra specie), la sua ricerca con un canestro in mano era il primo approccio, poi si veniva a casa a fare il presepio.
Noi lo facevamo piccolo in una angoliera, ma molto bello. Le statuine erano di coccio, ogni famiglia le teneva da tempo immemorabile. L’allestimento del presepio a cui sono affezionato è quello “appenninico“. Mi spiego: ci sono quelli napoletani, così ricchi e belli, dei presepi urbani adatti alle città. Ci sono quelli orientali coi turbanti, le case con le cupole.
Per me, quello vero è quello nostro, quello appenninico che ha inventato san Francesco, con il muschio, i pastori coi canestri, il paesaggio montano. Il presepio mi dava una tenerezza immensa perché, rispetto ai simboli pasquali che mi mettevano inquietudine, il presepio significa nascita e unione nel cosmo.
Dai personaggi, alle pecore, gli alberi, i pastori, la guardiana d’oche, gli angeli, l’asino e il bue, tutto era in un’unità cosmica, tutto trovava nella culla il suo centro armonico che anche
per i non credenti è un simbolo di unità e armonia. Sono legatissimo al presepio e alla figura del pastore in particolare, tanto che spesso l’ho inserito nelle mie poesie. Poi c’era l’albero di Natale. Mio padre, tornato dalla guerra in anni ancora poveri, andava a tagliare un ramo di pino alla pineta. Lo portava a casa e si sistemava. Era bellissimo, ma tutto diverso da quello di oggi: oggi sono alberi cosparsi di luci, alberi tutta apparenza.
Allora invece gli alberi erano addobbati con un sacco di cose da prendere, da piluccare. Tutto rigorosamente appeso. C’erano i mandarini, le arance incartate, i primi torroncini. Veniva il mio futuro cognato, fidanzato di mia sorella Ebe, e ci portava le prime monete di cioccolata in commercio, che ci colpivamo moltissimo e anche
quelle le appiccicavamo all’albero. La neve la facevamo coi fiocchi di bambagia e le luci erano fatte dalle vere candeline sui rami. Anche i regali spesso venivano appesi, se non erano troppo pesanti. Ma erano regalini quasi sempre da mangiare, non c’erano i giocattoli.
Questo perché Babbo Natale non esisteva, si aspettava la Befana. Babbo Natale lo vidi per la prima volta anni dopo, forse al cinema in qualche
pellicola americana. L’albero addobbato era il simbolo di una ritrovata agiatezza dopo la
guerra.
(Fine prima parte. Continua…)
«La festa con luci tenui e odorosa di brodo ai miei tempi capodanno non era come oggi»
Lo scrittore e poeta Umberto Piersanti rievoca il clima della sua infanzia e prima gioventù in una Urbino totalmente diversa
… Il periodo delle feste era ricco di momenti diversi: la notte della vigilia si andava a messa al
duomo o a san Francesco. A san Francesco c’era il più bel presepe cittadino. La vigilia era
sì la visita in chiesa, ma soprattutto stare in giro a notte fonda per una Urbino con poche luci
che, nell’immediato dopoguerra, faceva quasi paura a noi bambini: c’era solo qualche lucetta
nelle edicole sacre, come quella per Lavagine.
Ricordo poi le passeggiate di noi bambini il giorno di Natale, in cui si andava anche al cinema
(la prima volta vidi un film sullo sbarco in Normandia). Erano momenti in cui si parlava tra
noi, si chiacchierava con gli amici. La preparazione dei pranzi era lunghissima: mia madre
aveva uno stampo per fare tutti i cappelletti in fila. Noi piccoli cercavamo di mangiare ogni
tanto qualcosa mentre si cucinava… i pranzi erano lunghissimi, talvolta c’era anche la tombola, ma più che altro si stava a parlare seduti. Nelle famiglie contadine di campagna il piatto tipico erano i taglioni in brodo, fino agli anni ’40. I cappelletti sono arrivati solo nel dopoguerra, diventando in breve tempo il piatto forte, rigorosamente col brodo di cappone.
Erano il non plus ultra.
C’era tanta attenzione all’impasto, sempre con un po’ di spezie, ma ogni famiglia li faceva
con piccole differenze. Come secondo, da noi non usava il tacchino: c’era il pollo ruspante;
poi tanti dolcetti e il ciambellone. Dopo qualche anno, arrivò il primo dolce “compro“ rispetto
a tutto il resto: il panettone. Il primo a giungere in Urbino fu il Motta, poi venne l’Alemagna.
Il torrone c’era già, il panforte invece era considerato un po’ lussuoso, come i datteri.
Nel periodo di vacanze, c’erano i primi compiti delle elementari da fare prima del rientro a scuola. La neve a volte la faceva, e quando navicava c’era la cosiddetta “rotta“, ovvero dei volontari che giravano per le vie, pagati dal Comune, per spalare con la vanga e guadagnare
qualcosa.
San Silvestro era poco festeggiato: ci si ritrovava la notte, qualche ora, ma era poco sentito.
La festa principale per i bambini invece era la befana. Vivevamo un’attesa incredibile del
dono, molto più che a Natale. Finché i bimbi erano in età per crederlo, si aspettava per ore
di sentire i passi sul tetto, o davanti al camino, dove si metteva la calza. Una volta dentro ci
trovai una corriera azzurra, un’altra volta una piccola motocicletta, o piccoli giocattoli,
trottole. O ancora qualche dolcetto, cioccolatini e un po’ di carbone, per ricordare a tutti
che nella vita c’è anche il carbone. Era una forma di educazione vera: anche nei momenti più
felici, stava a significare che non tutto era concesso.
Oggi i bambini sono ricoperti di doni ma non se ne accorgono più: il dono dev’essere intenso
e solitario. Un tempo erano delle feste povere, con luci e colori infinitamente minori, ma
più intensi. Odorose di pino e di brodo di cappelletti. (Fine seconda e ultima parte.